
Immunoterapia e farmaci target non più solo in presenza di metastasi, ma anche prima che la malattia possa diffondersi. Obiettivo: ridurre il rischio di recidiva dopo la resezione completa della malattia
UN MELANOMA in stadio avanzato con il solo coinvolgimento dei linfonodi. Sebbene con l’intervento chirurgico si riesca a rimuovere completamente la malattia, il rischio di recidiva in questo caso è abbastanza alto: va dal 30 al 70%. Ora, però, per questi pazienti, anche in Italia si apre una nuova strada: è infatti possibile intervenire con terapie in fase adiuvante, cioè dopo l’intervento, e diminuire così in maniera significative il rischio che la malattia ritorni. Da un lato una sorta di immunoterapia “preventiva” e dall’altro i cosiddetti farmaci target: medicinali finora utilizzati solo nel trattamento dei pazienti con metastasi, che hanno però dimostrato di poter essere efficaci anche quando somministrati prima che la malattia si ripresenti e per questo sono stati approvati dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).
I nuovi farmaci approvati per il trattamento adiuvante
L’Agenzia ha approvato per i pazienti non metastatici la rimborsabilità sia di due farmaci immunoterapici (nivolumab e pembrolizumab), sia della prima terapia di precisione (la combinazione dabrafenib + trametinib). In particolare, il pembrolizumab e la terapia target sono indicati come trattamento adiuvante per i pazienti con melanoma in stadio III completamente resecato, mentre nivolumab anche per pazienti in stadio IV senza evidenza di malattia. “La differenza fondamentale – spiega Paolo Ascierto, Direttore Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione ‘Pascale’ di Napoli – è che la terapia target è destinata esclusivamente ai pazienti che presentano la mutazione BRAF. Questi ultimi possono usufruire anche dell’immunoterapia. Al contrario, se la mutazione non c’è, l’unico trattamento che si può seguire è quello immunoterapico”.
Quale terapia seguire
Entrambi i trattamenti sono validi e durano circa un anno: la terapia target è in compresse, mentre l’immunoterapia richiede la somministrazione del farmaco per via endovenosa ogni due o tre settimane. “Se il paziente presenta la mutazione, non ci sono per il momento indicazioni precise per poter scegliere il tipo di trattamento. La decisione – afferma Ascierto – dipende sia dalle caratteristiche cliniche sia dagli effetti collaterali. In ogni caso, la riduzione del rischio di recidiva è simile: c’è un notevole miglioramento dei tassi di sopravvivenza libera da recidiva e questo significa che sempre meno pazienti svilupperanno metastasi”.
La terapia target
La terapia target, cioè la combinazione di dabrafenib + trametinib ha dimostrato di essere efficace nel ridurre notevolmente il rischio che il tumore ricompaia nei pazienti che presentano la mutazione BRAF (circa il 50%). Per questa terapia l’AIFA ha riconosciuto l’innovatività piena: dabrafenib colpisce il gene alterato e, in combinazione con trametinib – che ha come bersaglio MEK, un’altra proteina che favorisce la proliferazione cellulare – permette di controllare il processo di crescita del tumore. “Quando il gene BRAF è mutato – spiega, infatti, Ascierto – produce una proteina anomala che non funziona più correttamente e invia un segnale di moltiplicazione alla cellula anche quando non dovrebbe: in questo modo, dà luogo alla replicazione incontrollata delle cellule tumorali”. I risultati dello studio COMBI-AD hanno mostrato come, rispetto al placebo, la combinazione dei due farmaci ha prodotto un miglioramento significativo della sopravvivenza libera da recidiva (40% vs 59% a 3 anni), riducendo del 51% il rischio di recidiva. Inoltre, a tre anni il tasso di sopravvivenza globale è stato dell’86% rispetto al 77% del placebo.
I due farmaci immunoterapici
I due farmaci immunoterapici, invece, sono inibitori del checkpoint immunitario PD-1, che è in grado di ripristinare e potenziare l’attività del nostro sistema immunitario contro le cellule tumorali. In particolare, nivolumab ha dimostrato un beneficio a lungo termine con una sopravvivenza libera da recidiva a tre anni del 58% e una riduzione del rischio di recidiva pari al 32%. Per quanto riguarda pembrolizumab, si è registrata una riduzione del rischio relativo di recidiva di circa il 43% e un beneficio assoluto del 20-25%. In altre parole, per ogni 4 o 5 pazienti che riceveranno il farmaco, ci sarà almeno un paziente che non presenterà recidiva grazie all’utilizzo di questa terapia.
Il melanoma
Il melanoma colpisce indifferentemente uomini e donne: si contano circa 14 mila nuovi casi all’anno. Quando è diagnosticato in uno stadio precoce, la chirurgia rappresenta il trattamento standard ed è associata a una buona prognosi a lungo termine: il tasso di sopravvivenza a 5 anni è, infatti, del 98% nei pazienti in stadio I e del 90% nei pazienti in stadio II, quando cioè il tumore è presente solo nello strato cutaneo, a qualche millimetro in profondità. Se, invece, il tumore è progredito ai linfonodi vicini, le cose cambiano: i pazienti che, alla diagnosi, presentano malattia allo stadio III (circa il 15% di tutte le nuove diagnosi di melanoma) sono ad alto rischio di recidiva dopo resezione chirurgica e sono caratterizzati da una prognosi significativamente peggiore. Per questo motivo, la novità di poter somministrare in anticipo questi trattamenti, cioè quando il paziente dopo l’intervento non presenta più alcun segno della malattia, rappresenta un importante punto di svolta per questi pazienti.
FONTE: www.repubblica.it