
Anche se i casi continuano ad aumentare soprattutto tra i giovani, grazie alla target therapy e all’immunoterapia oggi i pazienti con melanoma riescono a vivere più a lungo persino quando sono già in fase avanzata
Il melanoma è in aumento soprattutto tra i giovani che amano sfoggiare un bel colorito abbronzato e che sono tra i principali utilizzatori delle lampade Uv. Due abitudini che rappresentano anche i più importanti fattori di rischio di questa patologia che negli under 50 è il secondo tumore più frequente tra gli uomini (dopo quello del testicolo) e il terzo tra le donne (dopo quella del seno e della tiroide). Secondo le stime riportate nell’ultimo rapporto Aiom-Airtum (Associazione Italiana di Oncologia Medica e Associazione Italiana Registri Tumori), oggi in Italia vivono 160 mila persone con una pregressa diagnosi di melanoma e nel 2019 sono state stimate 12.300 nuove diagnosi di melanoma sempre più diffuso tra i giovani: il 20% dei casi è riscontrato in pazienti fra i 15 e i 39 anni.
I fattori di rischio
Le caratteristiche fisiche possono avere un ruolo nell’insorgenza del melanoma: avere pelle e occhi chiari e capelli biondi o rossi (fototipo 0-1-2), avere un elevato numero di nevi e nevi atipici, o la presenza di grandi nevi melanocitici congeniti (>20 cm) fa aumentare il rischio. Ma poi ci sono gli stili di vita a partire dall’esposizione ai raggi UV, soprattutto durante l’infanzia e l’adolescenza.

Si stima che l’esposizione ai raggi UV raddoppi il rischio di melanoma nella popolazione generale e lo aumenti in modo marcato nelle persone con fototipo basso. Anche le lampade abbronzanti sono considerate nocive. Uno studio dell’Agenzia internazionale della ricerca sul cancro (Iarc) ha evidenziato come l’utilizzo di questi dispositivi nei giovani al di sotto dei 30 anni aumenti del 75% il rischio di sviluppare il melanoma.
Quanto conta la genetica
Come in molte altre patologie, contano anche i fattori genetici come le mutazioni ereditarie del gene CDKN2A. Per il trattamento di pazienti con melanoma localmente avanzato e avanzato è particolarmente importante la valutazione dello stato mutazionale. Negli ultimi anni, infatti, la ricerca ha permesso di individuare alcune mutazioni alla base della proliferazione incontrollata delle cellule. Tra queste, le mutazioni del gene BRAF, presenti in circa la metà dei pazienti affetti da melanoma: “Il gene BRAF ha un ruolo fondamentale nel controllo della proliferazione dei melanociti, le cellule da cui origina il melanoma. Circa il 50% dei melanomi presenta mutazioni del gene BRAF – che quando iper espresso è in grado di attivare in maniera abnorme la proliferazione cellulare neoplastica”, afferma Giuseppe Palmieri, Presidente dell’Intergruppo Melanoma Italiano (IMI), Responsabile Unità di Genetica dei Tumori, ICB-CNR Sassari. Se il gene BRAF muta, viene prodotta una proteina anomala che continua a inviare il segnale di moltiplicazione alla cellula anche quando non dovrebbe, dando luogo alla proliferazione delle cellule tumorali.

Come si può curare il melanoma in fase precoce
Oggi ci sono 160mila persone in Italia che vivono dopo la diagnosi, una cifra che in cinque anni è aumentata del 97% (erano 81mila nel 2014) tanto che gli oncologi parlano di cronicizzazione della malattia in fase avanzata in circa il 50% dei casi. Molte le possibili terapie con cui affrontare questa patologia e che possono essere utilizzate anche in sequenza tra loro. Per il melanoma diagnosticato in uno stadio precoce, la chirurgia costituisce il trattamento standard e riesce a dare buoni risultati anche a lungo termine. Il tasso di sopravvivenza a 5 anni è del 98% nei pazienti in stadio I e del 90% nei pazienti in stadio II, quando il tumore è presente solo nello strato cutaneo, a qualche millimetro in profondità. Se il tumore invece è progredito ai linfonodi vicini le cose cambiano.
Il melanoma in fase avanzata
Infatti, i pazienti che, alla diagnosi, presentano malattia allo stadio III (circa il 15% di tutte le nuove diagnosi di melanoma) sono ad alto rischio di recidiva dopo resezione chirurgica e sono caratterizzati da una prognosi peggiore. La scelta delle cure possibili – terapia target, immunoterapia, radioterapia – dipende anche dalle caratteristiche molecolari della neoplasia, come la presenza di mutazioni in specifici geni del tumore, in particolare del gene BRAF seguito dalle mutazioni nei geni Nras (15-20% dei melanomi cutanei) e cKIT (2% dei melanomi cutanei).

Il ruolo della target therapy e dell’immunoterapia
Che chance di cura hanno questi pazienti? Attualmente sono stati approvati dalla European Medicines Agency trattamenti post chirurgia con farmaci innovativi (target therapy e immunoterapia) per ridurre il rischio di recidiva di malattia. In particolare, le terapie target, che colpiscono specifici bersagli presenti nelle cellule tumorali, sono indicate nel trattamento del melanoma adiuvante (quello ad alto rischio di ricaduta asportato chirurgicamente e con la mutazione BRAF) e metastatico (cioè quello diffuso ad altre parti del corpo) che esprime la mutazione BRAF mentre l’immunoterapia con gli anticorpi monoclonali anti-PD-1, anti-PD-L1 e anti-CTLA-4 stimola le difese immunitarie dell’organismo affinché aggrediscano il tumore. In Italia i farmaci inibitori di BRAF e MEK sono disponibili per lo stadio avanzato inoperabile e metastatico del melanoma BRAF+.

L’importanza dei test molecolari
Ecco perché, per i pazienti in III e IV stadio, il test per la determinazione dello stato mutazionale di BRAF – un test di laboratorio, eseguito su un campione di tessuto prelevato tramite biopsia – è sempre consigliato: è sulla base del suo risultato che il medico potrà scegliere la migliore strategia terapeutica. Infatti, se il test molecolare evidenzia la presenza della mutazione BRAF l’oncologo può utilizzare farmaci diretti contro la proteina BRAF mutata (BRAF inibitori) la cui efficacia aumenta se, contemporaneamente, viene somministrato anche un farmaco che blocca un’altra proteina – chiamata MEK – implicata nello stesso processo di moltiplicazione delle cellule malate. In questo modo si riesce ad aumentare la sopravvivenza libera da progressione di malattia e la sopravvivenza globale.

Lo studio Combi-Ad
Al meeting annuale dell’American Society of Clinical Oncology sono stati presentati i dati a 5 anni dello studio COMBI-AD che ha valutato l’efficacia di dabrafenib + trametinib in pazienti con melanoma in stadio III. I risultati di questo studio hanno dimostrato l’efficacia della terapia target non solo a breve ma anche a lungo termine. A tre anni l’intervallo libero da recidiva era del 59%, a quattro del 54%, a cinque del 52%. Insomma, si sta raggiungendo una sorta di plateau che fa ben sperare nella possibilità di guarigione per questi pazienti. “I risultati di questo studio mostrano che il trattamento adiuvante con dabrafenib + trametinib, dopo resezione chirurgica, offre una sopravvivenza libera da recidiva a lungo termine”, spiega Paola Queirolo, direttore Divisione Melanoma, Sarcoma e Tumori rari all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. “La maggioranza delle recidive, nei pazienti con melanoma in stadio III, si manifesta entro cinque anni e il melanoma ricorrente con mutazione di BRAF, una volta che si è diffuso agli altri organi, può essere pericoloso e più difficile da curare rispetto alla malattia iniziale. Poter trattare i pazienti in questo stadio iniziale di malattia aumenta la possibilità di evitare una recidiva e, quindi, potenzialmente di curare il paziente, favorendone la guarigione”.
La terapia target come terapia adiuvante
I farmaci che devono la loro efficacia alla capacità di colpire un bersaglio specifico, già utilizzati nel trattamento dei pazienti che hanno sviluppato metastasi, hanno dimostrato di poter essere efficaci anche quando somministrati prima che la malattia si ripresenti nei pazienti con melanomi ad alto rischio asportati che esprimono la mutazione BRAF. Sono considerati ad alto rischio di recidiva i soggetti con una lesione primitiva molto spessa o ulcerata (stadio IIB-IIC) o con malattia diffusa anche ai linfonodi locoregionali (stadio III). La combinazione Dabrafenib + Trametinib è infatti oggi disponibile come trattamento adiuvante nei pazienti con melanoma al III stadio, ovvero ad alto rischio, positivi per la mutazione BRAF dopo la completa resezione chirurgica. Dabrafenib va a colpire il gene alterato e, in combinazione con Trametinib – che ha come bersaglio MEK, un’altra proteina che favorisce la divisione cellulare – permette di controllare il processo di proliferazione del tumore.
I dati delle ricerche scientifiche
Nello studio COMBI-AD, rispetto al placebo, la combinazione ha ridotto addirittura del 51% il rischio di recidiva e il tasso di sopravvivenza globale a 3 anni è stato dell’86% rispetto al 77% del placebo. Sulla base di questi dati, l’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) ha approvato la rimborsabilità di Dabrafenib + Trametinib di Novartis per il trattamento del melanoma adiuvante, riconoscendone l’innovatività. Non solo: i nuovi risultati dello studio, pubblicati di recente sul New England Journal of Medicine, confermano che 12 mesi di terapia adiuvante con dabrafenib più trametinib forniscono un beneficio a lungo termine duraturo in termini di sopravvivenza senza ricaduta (RFS) nei pazienti con melanoma resecato di stadio III con mutazioni BRAF V600.
Per approfondimenti visita il sito di novartis.it
FONTE: La Repubblica