
L’immunoterapia ha rivoluzionato la lotta al cancro. Oggi, grazie alle scoperte dei meccanismi con i quali il tumore spegne il sistema immunitario, possiamo progettare farmaci in grado di tenere sempre viva la risposta. È così che molte forme di cancro che prima non lasciavano speranza stanno diventando croniche». A spiegarlo è Michele Maio, direttore del Centro di Immuno-Oncologia al Policlinico Santa Maria alle Scotte a Siena, considerato uno dei pionieri di questa disciplina.
Professore, perché le scoperte dei due Nobel stanno cambiando in meglio la lotta ai tumori?
«Fino ad una decina di anni fa il cancro poteva essere affrontato attraverso l’approccio chirurgico, chemioterapico e radioterapico. Tre strategie che, integrate, hanno consentito di raggiungere ottimi risultati. La svolta, però, si è avuta quando abbiamo cominciato a guardare in modo nuovo la lotta al cancro, spostando l’attenzione sul sistema immunitario. L’idea di fondo è sfruttare la capacità delle cellule che ci difendono di riconoscere ed eliminare le cellule cancerose».
Di che meccanismo stiamo parlando?
«È un meccanismo, fisiologico, che non sempre, tuttavia, funziona a dovere. I tumori infatti sono in grado, tramite la secrezione di alcune molecole, di spegnere questa risposta e crescere in maniera indisturbata. Il Nobel ha premiato la scoperta di tutti gli attori biologici coinvolti in questo fenomeno. Averli individuati è stato il primo passo per progettare nuovi farmaci capaci di rimuovere il freno che limita la risposta immunitaria».
Oggi alcuni di questi farmaci sono realtà: quali?
«Il primo ad arrivare sul mercato, nel 2011, è stato Ipilimumab, un anticorpo capace di agire bloccando il recettore Ctla-4. Così la proteina non può più fungere da segnale inibitorio e la risposta immunitaria rimane accesa. Oggi sono già molti i farmaci commercializzati che hanno come target Ctla-4 e un altro recettore, Pd-1».
Quanto hanno cambiato queste molecole la vita dei malati?
«A fare da apripista all’immunoterapia è stato il melanoma, un tumore che, quando era in metastasi, lasciava poche speranze. Una decina di anni fa la sopravvivenza media, per questo tipo di tumore al quarto stadio di sviluppo, si aggirava sui 6-9 mesi dalla diagnosi. Solo il 25% dei malati era vivo a un anno. Ora la situazione è radicalmente cambiata. I dati sulla sopravvivenza a un melanoma a 10 anni di distanza parlano chiaro: con ipilimumab, il primo immunoterapico della storia, siamo a quota 20%».
Quanto è significativo questo risultato?
«È un risultato straordinario, se confrontato con l’aspettativa di vita media con la sola chemioterapia. In 10 anni, poi, la ricerca è andata avanti, individuando nuovi meccanismi da sfruttare. Da qui sono nati, tra i tanti, nivolumab e pembrolizumab. All’ultimo congresso mondiale, l’Asco di Chicago, sono stati presentati i primi dati di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di melanoma: il 41% è vivo e nell’86% dei casi, dopo la sospensione del trattamento, il sistema immunitario tiene sotto controllo la malattia. Sono risultati importanti che si stanno estendo ad altre forme di tumore, come quello del polmone».
Questi farmaci funzionano sempre?
«Una premessa è d’obbligo. Tutto ciò che non è immunoterapia non va in soffitta. A seconda del tumore che si ha davanti è opportuno scegliere quale strategia adottare. Non sempre l’immunoterapia rappresenta la prima scelta. Secondo le statistiche, a beneficiare di questo approccio è circa la metà delle persone che vi si sottopongono. L’obiettivo a cui sta lavorando la comunità scientifica è aumentare la percentuale».
Come si muove la ricerca per migliorare la situazione?
«La ricerca sta lavorando al fine di rendere il tumore più riconoscibile da parte del sistema immunitario. L’obiettivo finale è massimizzare l’efficacia dei farmaci immunoterapici, cambiando le caratteristiche del tumore e del micro-ambiente in cui vive».
FONTE: www.ilsecoloxix.it